Talking Heads, parte prima.

I Talking Heads sono la band che ha maggiormente ha contribuito al rinnovo della scena musicale a cavallo fra gli anni ’70 e gli anni ’80. Lo ha fatto tramite due aspetti chiave: un ritrovato interesse per la riflessione intellettuale e la capacità di apportare una serie di innovazioni ritmiche al rock. Mica roba da poco.

I Talking Heads erano tre studenti dall’aria borghese della Rhode Island School Of Design, che dal 1974 si esibivano nei caffè della zona universitaria. Nel 1975 David Byrne, Chris Frantz e Tina Weymouth si trasferirono a New York, dove entrano in contatto con la scena alternativa del Greenwich Village. Nel Febbraio del 1977 esce il loro primo singolo “Love → Building on Fire” che conteneva già la quintessenza della loro arte: strimpellio atonale, un passo marziale e una serie di demenzialità vocali recitate/cantate con distacco. Nel frattempo veniva reclutato un quarto elemento: Jerry Harrison, tastierista.

L’album 77 (Sire, 1977) è una delle pietre miliari della New Wave. Mentre Byrne cantava storie bizzarre in maniera stentorea la sezione ritmica produceva un sound imparentato con la musica delle discoteche: pezzi ballabili impostati su un ritmo ibrido di funk e di rock and roll, a tratti nevrotici, a tratti marziali, spesso ipnotici. Una meraviglia.

L’album è orecchiabile, anche nella sua forma più inquietante, “Psycho Killer”, la suprema dichiarazione di intenti dementi di Byrne: testi nervosi e sconnessi, voce tesa che canta al di sopra della sua gamma con salti in falsetto e le grida strozzate. Praticamente un pazzo che cerca disperatamente di sembrare normale.

E così molte delle convenzioni della musica rock cominciavano ad essere smembrate: ogni canzone creava tensione intellettuale invece che il tradizionale sfogo emozionale, i testi non avevano nulla a che fare con i temi classici del rock (sesso, alcol, droga o violenza) e l’irruenza punk lasciava spazio alla compostezza.

Con More Songs About Buildings And Food (Sire, 1978) il tema di fondo della musica dei Talking Heads arriva a galla: fusione di ritmi etnici e tecnologia. Nell’album vengono banditi gli assoli, tutti gli strumenti servono a fare ritmo ed il nuovo co-produttore (Brian Eno) porta una nuova unità musicale, bilanciando l’influenza tra David Byrne e la sezione ritmica di Tina Weymouth e Chris Frantz.

Se “More Songs” fosse finito alla traccia numero 9 (Stay Hungry) sarebbe stato il degno successore di 77, un prodotto decisamente originale ma confinato ad un pubblico underground. Invece, attraverso le ultime due canzoni l’album, si trasforma in un trampolino di lancio per la band. In particolare la cover di “Take Me to the River” di Al Green, pubblicata come singolo, spinge l’album al disco d’oro. Con questo lavoro si chiude la prima fase dei Talking Heads, quella del funk per adolescenti.

In Fear Of Music (Sire, 1979) Byrne abbandona l’effervescenza dei primi dischi per assumere un tono più drammatico e austero, da messia dell’apocalisse più che da censore dei costumi giovanili. In precedenza le osservazioni insolite di David Byrne erano state innescate da un tono apertamente umoristico mentre in “Fear of Music” sono ancora strane, ma non così divertenti.

L’album è musicalmente diverso dai due predecessori principalmente a causa dell’uso di tonalità minori che conferiscono alla musica un suono più inquietante. Tuttavia la musica è diventata più densa e più coinvolgente, in particolare nel brano chiave “Life during Wartime” (ritmo robotico, canto vibrante e disperato che precipita in un coro isterico). Le nuove soluzioni melodiche sono rappresentate anche da “Memories Can Wait” (clima tenebroso, sound ipnotico che culmina nel ritornello recitato di Byrne) e “Cities” (basso iper-cinetico che smonta e rimonta casualmente archetipi rock, grida da ospedale psichiatrico).


Remain In Light (Sire, 1980)
è uno dei capisaldi dell’art-rock, una sintesi fra Afrobeat e tecnologia. Sviluppa le attitudini degli album precedenti e reinventa il sound della band sostituendo la semplicità degli esordi con una raffinata sovrapposizione di ritmi e trame sonore. La dimensione psichiatrica di brani come “Cities” viene accantonata per dare spazio a testi più funzionali al ballo e gli arrangiamento ritmici che ne escono risultano irresistibili. Questa combinazione di ritmi coraggiosi e parole inebrianti eleva canzoni come “Crosseyed and Painless” da aggrovigliati nonsense a capolavori espressivi.

L’album costituisce uno studio approfondito del ballabile moderno e dei suoi rapporti con l’alienazione urbana, ma sacrifica la spontaneità degli esordi per un sound più artificiale, che Brian Eno contribusice ad enfatizzare con aggiunte che talvolta possono suonare posticcie. Nonostante i trubuti alla musica africana di fatto l’album suona più bianco che mai.

Il merito dell’album è comunque quello di divulgare presso il grande pubblico una nuova forma di canzone Rock. Ma ne parleremo in un secondo articolo…

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