La differenza tra musica classica e moderna

Non c’è differenza. Il titolo serviva a catturare la vostra attenzione. Ma seguitemi. Il percorso, anche se non porterà a una risposta definitiva, ci permetterà perlomeno di toglierci dalla testa questa differenza del cacchio.

There are simply two kinds of music, good music and the other kind … the only yardstick by which the result should be judged is simply that of how it sounds. If it sounds good it’s successful; if it doesn’t it has failed

Duke Ellington, Where Is Jazz Going?, Music Journal, 1962, in The Duke Ellington Reader

Si dice che la chitarra classica sia intimista, cioè richieda una certa essenzialità dell’ascolto: sei corde, pizzicate con le unghie, senza possibilità di reiterarle e propagate da una piccola cassa di legno. Invece il violino, il pianoforte o il clarinetto, utilizzati rispettivamente con un arco, un martelletto e due polmoni da svariati litri d’aria, hanno una gamma dinamica decisamente maggiore di quanto si possa mai sognare di produrre una unghietta ben limata. L’intimismo musicale denota una certa fugacità del suono. Fosse anche in un teatro, la chitarra classica si ascolta con particolare attenzione, non tanto per rispetto al musicista ma per il fatto che sono suoni deboli e per apprezzarne i timbri, i colori, ed emozionarsi, bisogna fare silenzio. Questa è una conquista relativamente recente della chitarra classica – la cui concezione risale al liutaio Antonio De Torres, a metà dell’Ottocento, e da allora non è mai più stata modificata – e la si deve a un grande concertista, Andrés Segovia, il primo a fare, agli inizi del Novecento, una cosa inaudita: portare uno strumentaccio popolare, di accompagnamento, la chitarra, in un teatro. Apparteneva a una giovane generazione di musicisti più sicuri di sé e del proprio strumento, imparando da maestri come Llobet e Pujol, decisamente più virtuosi di Segovia ma, per circostanze storiche e atteggiamento mentale, più timidi.

Andrés Segovia Torres (Linares, 1893 – Madrid, 1987), in una foto da giovane

L’essenzialità intimistica della chitarra è spiegata. Ma l’intimismo, di per sé, è proprio dell’ascolto musicale in generale. Intimista è niente di più che un buon ascoltatore, pronto ad accostarsi al suono con attenzione. E con il jazz, l’elettronica, il rock, il drum and bass, come si deve porre l’ascoltatore? Sugli accenti.

Un criterio di discernimento tra musica classica e moderna forse c’è, quello ritmico. La musica classica è oggi popolarmente ostica, “noiosa”, perché ti chiede di accettare un altro tipo di ritmo, mentre l’antica tradizione orale del canto, quello alla base del jazz, del blues, del pop e del rock (che va sotto il nome di musica folk), sembra invece più immediata. La musica folk a sua volta è fortemente dipendente dalla poliritmicità della musica ancestrale dei popoli africani. Ci è nata la specie uomo lì, insomma. Alla base, la pulsione ritmica, la complessità poliritmica, quella che ancora oggi spiazza qualsiasi musicista bianco e che richiede un certo coinvolgimento del corpo.

Abbiamo quindi associato la “moderna” alla ritmicità ancestrale e la “classica” all’intimità timbrica. La prima sembra apparentemente appartenere a un campo più naturale, quello del corpo e del ritmo. Ciò spiegherebbe perché la musica classica sia generalmente avvertita come elitaria, austera, severa, solitaria, astratta, stratificata, complessa, mentre la musica moderna è cool, socializzante, vivace, immediata, semplice, e viene quindi percepita come più “positiva” rispetto alla vetusta tradizione musicale tonale occidentale. Ma non tutti sanno che anche la ganza musica moderna proveniente dalla spontaneità del folk è il frutto di una grande risistematizzazione razionale: è stata pensata, voluta, scritta, provata e approvata da musicisti che hanno iniziato per la strada e sono finiti in platea. Più che appartenere a una naturale predisposizione del corpo, in contrasto allo studio apparentemente necessario per approcciare alla classica, la musica moderna è stata altrettanto costruita.

Duke Ellington nel 1971

Gli antichi canti popolari a tradizione orale sono alla base di qualsiasi genere nato dalla seconda metà dell’Ottocento in poi. Tutto ciò che passa in città, alla radio, alla tv, negli aeroporti, ai concerti, nei bar e nella stragrande maggioranza dei film, viene in origine dai canti della notte dei tempi. A sua volta, però, questa primitività, per essere accettabile, fruibile, cantabile, consumabile, acquistabile, ha richiesto una strutturazione, un adeguamento a dei canoni, tutti scritti grossomodo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, ad opera di due classi sociali: i compositori e i musicisti di strada, con i compositori che catturavano quello che sentivano dai cantastorie e i cantastorie che strutturavano le loro melodie spontanee sulla base della tonalità classica. Shallow brown, antico canto inglese, è stato arrangiato per orchestra da Percy Grainger nel 1910 sulla base di un ascolto fugace due anni prima, nel porto di Dartmouth, di un marinaio che la canticchiava. Il risultato è una rivitalizzazione complessiva della musica: sia l’antica melodia di shaller brown, che si perde nella notte dei tempi, che l’antica tradizione tonale degli archi, ne escono trasfigurati.

Prima di Gringer lo hanno fatto Debussy, Bartok, Satie, Milhaud, Stravinsky, e prima ancora Wagner e Strauss, in un periodo in cui si aveva la sensazione che la musica tonale avesse ormai esaurito tutta la sua originalità. Non avete la stessa sensazione, oggi, con la musica pop?

Comunque sia, pare che i compositori occidentali abbiamo rivitalizzato la musica cannibalizzando la musica popolare senza tempo. Ma cannibali sono anche Armstrong ed Ellington che sfruttano le tecniche compositive dei bianchi per arrangiare i “loro” antichi canti del loro continente di origine. Musica classica e musica moderna sicuramente rispecchiano l’alto e il basso, la destra e la sinistra, la pesantezza e la leggerezza, l’aristocrazia e il socialismo, ma sono alla fine due facce della stessa medaglia. La cosa più importante da tenere a mente, come ci insegna un grandissimo libro di storia, Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg – la storia di un mugnaio semianalfabeta del Cinquecento che professava senza saperlo pericolosissime idee calviniste -, è che l’alto e il basso per esistere necessitano l’uno dell’altro. Il segreto della vitalità tanto del folk che del classico sta nella contaminazione. Presi di per se, nella loro “purezza”, semplicemente smettono di esistere.

Leonard Bernstein, uno dei più popolari direttori d’orchestra del Novecento

La musica classica sembra richiedere un certo ascetismo, quasi uno studio preliminare per affinare l’orecchio. Che noia. Il pop invece richiederebbe solo la messa a disposizione del proprio corpo, una cosa che facciamo fin da quando stiamo al mondo. Nessuno si permetterebbe di tacciare di elitismo l’apprendimento del linguaggio parlato e della scrittura, eppure per parlare e scrivere fluentemente sono richiesti decenni di pratica, quella stessa austera abnegazione richiesta per diventare direttore d’orchestra. Dalla lallazione alla padronanza delle subordinate passano non meno di quindici anni, ed è una pratica da fare tutti i giorni. Imparare a parlare e scrivere è come studiare medicina, giurisprudenza, o musica. Pare che all’ascoltatore di musica moderna non si richiederebbe tutto questo, egli può ignorare le ricchezze armoniche, melodiche, coloristiche e timbriche della musica, l’importante è che tenga presente lo schema percussivo e le sue reiterazioni, i suoi cicli. Ovviamente non è affatto così. Un ascoltatore del genere (il pubblico di riferimento delle radio) si muove in superficie ma, senza che se ne accorge semplicemente perché è ignorante, apprezza questa immediatezza della musica leggera solo se alla semplicità dell’idea musicale si aggiunge un certo arrangiamento, non necessariamente barocco, basta che si muove per contrappesi, contrasti e tradimento delle aspettative. Al contrario, è proprio quando si scheletrizza sul ritmo una canzone, la si riduce alle sue pulsazioni, enfatizzando soltanto alcuni pattern (l’acuto vocale, il basso, si pensi alle straordinarie performance dei cantanti soprattutto statunitensi), senza contrastarlo con qualcos’altro (l’alternanza o la simultaneità di un’altra voce, la risposta degli strumenti, il gioco tra frequenze alte e basse) che esce della musica di merda. L’amico Moris, socio di Synthposium, ha una definizione più tecnica, la chiama musica di plastica: piatta, secca, senza pathos, senza gamma, una semplice generatrice di pulsazioni. A un primo ascolto, entusiasmante per la sua immediatezza, dopo un po’: noiosa. Questo succede quando non si mischia l’alto e il basso.

Nulla però riesce a toglierci la sensazione, quando stiamo ascoltando un pezzo rock, anche da soli, che stiamo dando un contributo all’immaginario collettivo. La stessa sensazione non possiamo averla con la “vecchia” musica classica, che per farci coinvolgere richiede una cognizione storica di quello che stiamo ascoltando (o l’abitudine fin da bimbi all’ascolto, così da associarlo a una madeleine). Ma non è proprio quello che ci serve per emozionarci con un pezzo dei Beatles, dei Led Zeppelin, dei Negroamaro, il contesto? Sapere cosa ha rappresentato quella musica, quando è stata scritta, solo così ci emozioniamo definitivamente. Quindi, anche nel moderno, nell’accessibile pop, così come nell’ostica classica, si presuppone uno studio. L’unica differenza è che siamo semplicemente più abituati alla percussione ritmica della musica moderna, piuttosto che alla coloratura timbrica della classica, tutto qui.

Intimismo e “ritmismo”, alla fine di tutto, si stagliano come dei buoni indicatori di discernimento, come due approcci differenti all’ascolto, passibili di esasperazione. Timbro e pulsione, colore e sussequenzialità percussiva, sinfonia e canzone.

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